Disseminati in tutto il globo, ecco i "presidi della extraterritorialità", le discariche per i rifiuti non smaltiti e ancora non riciclati della terra di frontiera globale.
Per tutti i duecento anni di storia moderna, si è sempre dato per scontato che tutti coloro che non riuscivano a trasformarsi in cittadini - rifugiati, emigranti volontari o coatti, profughi tout court - fossero un problema dei paesi ospitanti e come tali sono stati trattati.
Pochi o nessuno degli stati nazionali presenti sulle moderne carte geografiche erano altrettanto autoctoni, "locali", in senso demografico di quanto lo fossero nell'esercizio delle loro prerogative sovrane. A volte di buon grado, altre volte a denti stretti, tutti hanno dovuto accettare la presenza di estranei nel proprio territorio, e tutti hanno dovuto accettare le varie ondate di immigrati in fuga o cacciati dalle terre di altri stati nazionali sovrani. Una volta entrati, gli stranieri ricadevano sotto la completa ed esclusiva giurisdizione del paese ospitante, il quale era libero di applicare le versioni aggiornate, modernizzate, delle due strategie descritte da Claude Lévi-Strauss in Tristi Tropici quali modi possibili di affrontare la presenza di stranieri: quando si sceglie di ricorrere a tali strategie si può contare sul pieno sostegno di tutti gli altri poteri sovrani del pianeta, ansiosi di preservare l'inviolabilità della trinità territorio/stato/nazione.
Le due possibili soluzioni al problema degli stranieri erano quella antropofagica e quella antropoemica. La prima consisteva nel "divorare gli stranieri": o mangiandone letteralmente la carne - il cannibalismo invalso presso certe antiche tribù - oppure in senso più sublimato e metaforico, come nell'opera (assistita dal potere) di assimilazione portata avanti pressoché universalmente dagli stati nazionali, di modo che gli stranieri venissero fagocitati nel corpo nazionale e cessassero di esistere in quanto stranieri. La seconda consisteva invece nel "rigettare gli stranieri" anziché divorarli: vale a dire rastrellarli ed espellerli (proprio come Oriana Fallaci - la formidabile giornalista e opinionista italiana - ha affermato noi europei dovremmo fare con tutti coloro che adorano altre divinità ed esibiscono sconcertanti abitudini igienico-sanitarie) o dai confini del potere statale o dal mondo degli esseri viventi.
Osserviamo tuttavia che il perseguire l'una o l'altra delle due soluzioni aveva senso solo in virtù di un duplice presupposto: una netta divisione territoriale tra il "dentro" e il "fuori" e la completa e indivisibile sovranità del potere di scelta della strategia all'interno di quel regno. Oggi, nel nostro mondo globale liquido-moderno, nessuno dei due presupposti gode più di alcuna credibilità, e quindi le possibilità di porre in atto l'una o l'altra delle due strategie ortodosse è, a dir poco, remota.
Ora che i modi di agire collaudati non sono più disponibili, sembra che non abbiamo più una buona strategia per gestire i nuovi arrivati. In un'epoca in cui nessun modello culturale può proclamare autorevolmente ed efficacemente la propria superiorità sul modelli antagonisti, e in cui il processo di costruzione della nazione e la mobilitazione patriottica non sono più i principali strumenti di integrazione sociale e di affermazione statale, l'assimilazione culturale non è più un'opzione praticabile. Poiché deportazioni ed espulsioni sono oggetto di drammatici reportage televisivi ed è probabile che scatenino una pubblica protesta e ledano le credenziali internazionali di chi le perpetra, i governi preferiscono tenersi lontano dai guai sbarrando le porte a quelli che bussano in cerca di riparo.
L'attuale tendenza di ridurre drasticamente il diritto all'asilo politico, accompagnata dal ferreo divieto d'ingresso agli "immigranti economici" (eccezion fatta per i pochi e transitori momenti in cui le aziende minacciano di trasferirsi dove c'è forza lavoro, a meno che non sia la forza lavoro a essere trasferita dove vogliono le aziende), non indica affatto una nuova strategia nel riguardi del fenomeno dei profughi, ma solo l'assenza di una strategia e il desiderio di evitare una situazione in cui tale assenza possa causare imbarazzo politico. [...]
Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l'emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire.
(Z. Bauman, Amore Liquido, Rizzoli 2004, pagg. 188-189)
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